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La Val di Zoldo

Questa sezione è dedicata a chi vuole conoscere in modo più approfondito la Valle di Zoldo, ed in particolare la sua ricca storia e l’importante istituzione delle Regole: i testi non provengono da depliant turistici ma dalla tesi di laurea “La ricostituzione delle Regole in Val di Zoldo” di Pietro Cordella. Nota: per motivi tecnici sono state omesse le fonti (il simbolo # indica la presenza di fonti nel testo originale), inoltre alcuni testi sono stati adattati al taglio del sito.Chi intendesse utilizzare questo materiale è pregato di contattare l’autore (pietrocordella[at]gmail.com) per richiedere i testi in edizione integrale con le relative fonti. 

La Val di Zoldo

Sebastiano Vassalli inizia il suo romanzo “Marco e Mattio”, ambientato proprio tra queste montagne, con una definizione assai suggestiva: “Zoldo non è un paese né una valle che prende il nome dal suo fiume ma è una dimensione dello spirito. Un’entità globale che comprende tutto: i villaggi, il cielo, la gente, le montagne.”

Guglielmo Monti invece descrive la Val di Zoldo come “uno stretto e ripido lembo di montagna, coperto di foreste e restio alle facili lusinghe del turismo di massa”, corrispondente, dal punto di vista geografico, al medio e alto bacino idrografico del Maè, torrente alpino che sgorga nella zona di Pecol, ai piedi della Civetta, per affluire nel Piave circa 25 km più a sud, all’altezza di Longarone.

I confini amministrativi comprendono invece il territorio che va dal passo Staulanza fino alla località di Mezzocanale, delimitato a oriente e occidente rispettivamente dal passo Duran e dal passo Cibiana.

I venti chilometri o poco più che separano Longarone da Forno di Zoldo sono sufficienti per passare da un ambiente di fondovalle di tipo prealpino ad un paesaggio peculiarmente alpino e dolomitico: la parte abitata della valle copre una fascia altimetrica compresa tra 800 e 1500 metri, mentre le cime più elevate superano i 3000 metri di altitudine.

Il paesaggio dell’alta valle di Zoldo, in particolare, è caratterizzato dalla presenza di imponenti cime dolomitiche (Pelmo e Civetta) e punteggiato di caratteristici villaggi, condizioni che hanno favorito lo sviluppo del turismo. Anche quella turistica, come qualsiasi industria umana, ha comportato alcune trasformazioni nel territorio: le piste da sci e gli impianti di risalita, assieme alla diffusa presenza di abitazioni a scopo turistico, oggi caratterizzano l’Alto Zoldano, ed in particolare le zone di Palafavera, Pecol e Mareson, senza tuttavia turbare eccessivamente l’armonia dell’ambiente dolomitico.

Anticamente questa parte della valle, aperta e prativa, aveva vocazione agricolo-pastorale: di quell’epoca si conservano alcuni pregevoli esempi di architettura rurale, i tabià, in molti casi restaurati e trasformati in abitazioni di lusso.

Dal punto di vista amministrativo, la parte settentrionale della vallata costituisce il Comune di Zoldo Alto, che pur contando poco più di mille abitanti, comprende ben 13 frazioni: oltre a quelle sopra citate, merita una nota anche Coi, antico maso alpino, situato in eccezionale posizione ai piedi del Pelmo e sede dell’omonima Regola.

Fa parte del Comune di Zoldo Alto anche la più defilata Valle di Goima, che si sviluppa lungo la strada che, attraverso il valico del Passo Duran, congiunge lo Zoldano con l’Agordino: i piccoli paesi che sorgono lungo la stretta valle, anch’essa dominata da cime di notevole bellezza, quali la Moiazza e il gruppo del San Sebastiano-Tàmer, costituivano un tempo il Comune di San Tiziano e oggi custodiscono una forte identità di montagna.

Scendendo verso sud, la valle si fa sempre più ripida e stretta, con gli insediamenti disposti vicino all’acqua, in passato utilizzata per l’attività siderurgica.

Situato in posizione assai meno privilegiata rispetto ad altre località di Zoldo, Forno (840m) oggi assolve  alla funzione di capoluogo e centro di riferimento per l’intera zona (vi sono concentrati negozi e servizi), senza coltivare particolari ambizioni turistiche, nonostante gli interventi degli ultimi anni abbiano certamente contribuito a migliorare l’immagine del paese. In ogni caso Forno è in alta stagione un centro vivace e animato grazie alla presenza di negozi, bar, locali e ottimi ristoranti. Nei terrazzamenti e nelle piane attorno al capoluogo sorgono numerose altre borgate, ove vive una parte consistente della popolazione di Zoldo (ormai ridotta a meno di 4000 abitanti complessivi, sparsi in una quarantina di piccole frazioni).

Tra queste, Pieve ha storicamente svolto il ruolo di centro religioso e civile della Valle, centralità confermata dalla presenza della imponente chiesa di San Floriano, pregevole testimonianza dello stile gotico alpino e oggi divenuta monumento nazionale. La zona, pur non particolarmente frequentata dai turisti, offre una vista notevole su tutte le montagne di Zoldo, oltre a custodirne i più importanti tesori artistici e storici.

Nel basso zoldano si trova anche Fornesighe, località di antico popolamento per la vicinanza alle miniere di Val Inferna, sfruttate sin dall’Alto Medioevo, ove si è meglio conservata l’architettura tradizionale grazie anche a mirati restauri.

Poco distante dal capoluogo, Pralongo, grazie alla posizione panoramica e circondata dalla natura delle Dolomiti, è la località del Comune di Forno di Zoldo ad essere maggiormente votata al turismo.

Per concludere, fa geograficamente parte del territorio zoldano anche il Comune di Zoppè di Cadore, che conta appena 271 abitanti: pur essendo storicamente (e culturalmente) legato al Cadore, l’assenza di collegamenti stradali diretti con i centri cadorini determina oggi uno stretto rapporto di questo piccolo comune con la Valle di Zoldo, cui fa riferimento per i servizi essenziali.

Zoldo in epoca medievale

A proposito della colonizzazione della Val di Zoldo, lo storico Raffaelo Vergani scrive che “il primo segno di presenza umana nella valle è costituito da un’antica iscrizione, probabilmente una confinazione di pascoli, databile al I secolo d.C.”#.

La marginalità geografica e l’asprezza del territorio probabilmente hanno determinato a lungo un popolamento solo discontinuo, legato alla pastorizia: si ipotizza che i primi abitatori provenissero da nord e fossero giunti in Zoldo attraverso il valico di Passo Staulanza.

La tradizione riportata da alcuni eruditi fa risalire la ricerca dei metalli al V secolo, ma non vi sono conferme documentali in proposito, pertanto è possibile limitarsi ad avanzare alcune ipotesi sul periodo precedente al XIII secolo.

Considerata la probabile origine germanica del toponimo Zoldo, e la presenza di influssi longobardi in alcuni vocaboli dialettali, è possibile datare all’epoca longobarda il primo stabile popolamento della valle: si spiegherebbe così la radicata presenza di un istituto di chiara derivazione germanica quali sono le Regole, che già in epoca tardo medievale venivano fatte risalire alla notte dei tempi.

In ogni caso è solamente a partire dall’anno mille che le risorse naturali abbondanti a Zoldo (foreste, acqua e, soprattutto, minerali) incoraggiarono una più massiccia colonizzazione, finalizzata allo sfruttamento e alla lavorazione di queste materie prime: le numerose miniere presenti, associate alla disponibilità di acqua e legname, valorizzarono lo sviluppo di attività connesse all’estrazione, fusione e lavorazione del ferro.

La maggior parte delle fonti individua in una bolla papale del 1185 il più antico documento conosciuto a citare Zoldo; la bolla sanciva e confermava l’assoggettamento della vallata, o meglio, della Pieve di Zoldo e dei territori ad essa pertinenti, al vescovo di Belluno:

“tutta la valle di Zoldo, eccetto la montagna pascolava di Zoppè di Cadore, era soggetta alla giurisdizione civile del Consiglio dei nobili di Belluno e a quella ecclesiastica del vescovo (e nominalmente pure conte) di Belluno. Queste giurisdizioni sono ricordate dal toponimo «Vescovà», poco sotto Staulanza, ove iniziava il territorio del vescovo (sia come giurisdizione, che come proprietà privata) e dal nome «Civetta», ossia montagna di «Cividal», come allora era chiamata la città di Belluno.”#

I vescovi esercitavano il proprio potere temporale sulla Valle per il tramite di avogari, nobili che impegnavano la propria persona e le proprie risorse nella difesa della diocesi, ricambiati con privilegi di varia natura, ed in particolare con la concessione di feudi. Le concessioni riguardavano lo sfruttamento di boschi e filoni metalliferi, ma in ogni caso la popolazione originaria mantenne il controllo di molti pascoli, campi, boschi, valli e montagne che costituivano il patrimonio antico delle Regole, inalienabile e non assoggettato all’ordinamento feudale. Nel XIII secolo si contavano in tutto Zoldo dieci Regole, tra le quali due erano dette “grandi” e cioè quella di Fornesighe e quella di Coi.

In quell’epoca la presenza delle Regole era sicuramente fondamentale per la sussistenza delle famiglie, ma queste non rivestivano più un ruolo esclusivo e centrale nell’economia di Zoldo, che era ormai divenuto un centro siderurgico di una certa importanza: “Tommaso Catullo attesta che dai libri della Cancelleria di Zoldo risultava che nel 1200 l’industria siderurgica era esercitata con grande successo a Dont e Fusine”#. Giorgio Piloni descrive minuziosamente i prodotti finiti di quest’industria e l’estensione del mercato che ne risultava: dalle miniere di Zoldo e Colle Santa Lucia si estraevano ogni anno 75 libbre di acciaio, 110 di ferro dolce e oltre 1000 libbre di ghisa, destinate alla produzione di munizioni, lance, spade e coltelleria destinate all’esportazione su scala europea (Spagna, Inghilterra, Germania); aggiunge Piloni: “nacque nel 1470 la guerra di Germania per diverse ragioni, le principali furono alcuni dispareri intorno ai confini al lago di Garda e per le miniere di ferro che avevano i veneziani lungo tempo possedute in Zoldo… ivi si lavora di gran lunga migliore et più perfetto di tutti gli altri ferro dolce”#.

Per favorire l’insediamento di nuovi coloni e, soprattutto, di lavoratori da impiegare nelle miniere e nei forni, è ipotizzabile che vescovi e feudatari concedessero importanti benefici a coloro che accettavano di lavorare in condizioni certamente difficili, come rileva anche don Floriano Pellegrini:

“Tutti i documenti più antichi (dico: tutti), parlano di masi, ovvero di appezzamenti di terra, a volte assai estesi, di proprietà di signori per lo più bellunesi, concessi in possesso a dei coltivatori. L’atto di concessione era detto «investitura». Ebbene, per essere valido, tale contratto doveva prevedere la capacità giuridica di agire in entrambe le parti, dei proprietari e dei coloni.

In un secondo momento, i documenti parlano di immigrazione in valle di famiglie di lavoratori del ferro, in forma diretta (i cosiddetti ferratari), o indiretta, quali boscaioli, carbonai e, di conseguenza, agricoltori e allevatori. […]

Si poteva trattare, è vero, di semi-liberi che, accettando di venire a lavorare in condizioni disagiate e di prima colonizzazione, trovavano nella concessione della libertà uno dei primi e non il minore dei guadagni.”#

Per quanto riguarda l’Alto Zoldano un documento nel 1331 attesta la presenza di un forno di fusione a Mareson, destinato alla lavorazione del ferro proveniente da Colle Santa Lucia,  Pecol e Fusine, mentre il toponimo Iral significava “area” e indicherebbe un’area destinata alla fabbricazione del carbone#.

In generale tutto il territorio e tutta la popolazione, direttamente o indirettamente, erano coinvolti nell’attività di lavorazione del ferro:

“nelle fonti scritte l’area veneta alpina del ferro prende gradualmente forma a partire dalla seconda metà del XII secolo tra alto Bellunese e Cadore occidentale, Agordino e Livinallongo. Durante il Trecento s’incontrano nella regione una ventina di forni da ferro; ma è solo nella valle di Zoldo che il settore siderurgico sembra assumere a partire all’incirca dalla seconda metà di quel secolo un ruolo centrale. Nelle valli vicine, è presumibile, la natura relativamente meno scoscesa dei terreni e la maggiore presenza di pascoli e boschi ha lasciato più spazio ad attività come l’allevamento e la silvicoltura, risorse tradizionali della montagna e moventi originari dell’insediamento umano nella regione.”#

L’industria siderurgica medievale provocò grandi stravolgimenti ambientali nella valle: l’attività dei forni destinati alla colatura del ferro richiedeva enormi quantità di carbone, che veniva ricavato a partire dalla legna dei boschi zoldani. Questo consumo, già sufficiente a incidere pesantemente sulla superficie boschiva, si sommava agli altri usi del legname, che veniva impiegato come materiale da costruzione, sia per le necessità locali, sia per l’esportazione verso Venezia e la pianura, oltre a dover soddisfare le quotidiane esigenze di riscaldamento. Il fumo dei forni, la febbrile attività dei minatori e dei boscaioli, le montagne spogliate dal continuo disboscamento, caratterizzavano Zoldo in epoca tardo medievale, in netto contrasto con l’immagine di pace e lentezza che trasmette oggi la valle.

Ascesa e declino dell’industria mineraria in Zoldo tra XVI e XVII secolo.

L’attività di estrazione e lavorazione del ferro in Zoldo raggiunse il suo apice agli albori dell’Età Moderna: all’inizio del XVI sec. la produzione siderurgica era valutabile in circa 450 tonnellate annue#, prodotte nei tre proto altiforni della valle, affiancati da decine di ferriere per la produzione di ferro dolce e numerosissime fusinele, officine dove venivano prodotti utensili in metallo destinati all’uso domestico e agricolo.

Il minerale di ferro proveniva in massima parte dalle miniere del Fursil a Colle Santa Lucia e solo marginalmente dai più piccoli giacimenti locali, ormai prossimi all’esaurimento dopo lo sfruttamento medievale.

Circa un terzo dell’intera produzione cinquecentesca era destinato a Venezia, ove arrivava perlopiù sottoforma di palle di cannone, il resto era destinato a Belluno ed altre città venete, mentre la lavorazione in loco riguardava solo quantità modeste del minerale.

I tre proto altiforni censiti nel 1548 erano ridotti a due già nel 1580, primo segnale del declino di quest’industria: alla fine del XVII secolo rimaneva in attività un solo forno di fusione, mentre cresceva il numero delle fusinele. In sostanza l’attività siderurgica perdeva il suo carattere industriale o proto industriale, rappresentato dai grandi forni, e si riduceva ad attività artigianale, consistente nella produzione di utensili domestici nelle piccole fusinele, ottenuti soprattutto dalla lavorazione di rottami ferrosi.

Tornando all’epoca d’oro dell’industria siderurgica zoldana, è possibile stimare in circa 350/400 i lavoratori direttamente impiegati nei forni e nelle fucine e “nell’indotto”, cioè nella fabbricazione del carbone, nel disboscamento e nelle attività di trasporto. Poiché i dati demografici disponibili ci permettono di calcolare in circa 1800 gli abitanti dell’intera valle alla metà del XVI secolo, si può facilmente intuire la centralità dell’industria siderurgica e delle attività ad esse collegate nell’economia zoldana: in pratica almeno una persona per famiglia lavorava in questo settore.

Lo sviluppo dell’attività siderurgica non dipendeva solo dalla prossimità alle miniere dolomitiche e dall’abbondanza di legname e acqua, ma era strettamente legato alla presenza di manodopera specializzata: dopo secoli di attività, la metallurgia zoldana aveva ormai una tradizione in questo senso; nei forni e nelle officine si tramandavano quelle competenze specialistiche indispensabili per garantirne il funzionamento.

Vergani assegna alla peste del 1630/31 un ruolo decisivo nel successivo rapido declino dell’industria metallurgica zoldana: circa il 40% della popolazione venne falciato dall’epidemia, distruggendo anche il capitale di conoscenza e le abilità specialistiche tradizionalmente presenti nella valle.

Inoltre la forte riduzione della popolazione determinò una diminuita pressione sulle risorse naturali: la disponibilità di campi e pascoli pro capite aumentò notevolmente, rendendo meno pressante la ricerca di fonti di reddito alternative all’allevamento e alla pastorizia.

Il declino dei forni fusori sulle Alpi del resto era già iniziato, come si è visto, alla fine del cinquecento e si inseriva in un contesto di grandi trasformazioni su scala continentale e globale: i grandi traffici commerciali si spostavano dal Mediterraneo all’Atlantico, mentre Venezia e l’Italia intera perdevano lentamente il loro ruolo guida in campo economico e culturale.

L’epidemia di peste diede il colpo di grazia e accelerò la fine dell’attività siderurgica zoldana: sebbene un forno rimase in funzione fino agli anni ’30 del XVIII secolo, ormai era da tempo in corso quella riconversione a manifattura artigianale, consistente nella lavorazione di rottami ferrosi di cui si è detto sopra, sopravvissuta in forme sempre più modeste fino alla metà del XX secolo (con l’eccezione di un fallito tentativo di rilancio su scala industriale attuato alla fine dell’ottocento).

In questo contesto si rivalutò il ruolo delle Regole, che tornavano ad essere centrali in un’economia di nuovo orientata allo sfruttamento delle risorse silvo-pastorali: la vitalità di questi istituti tra XVI e XVII secolo è confermata dalle acquisizioni di nuovi beni e dall’avvio di processi di riorganizzazione, fusione, stesura di nuovi Laudi.

Per quanto riguarda il contesto di Zoldo Alto, la Regola di Mareson nel 1640 ottenne  dai provveditori ai Beni Comunali di Venezia l’Investitura per godimento della montagna di Pàlafavèra, mentre nel 1664 la Regola di Fusine acquistava dalla famiglia nobile trevigiana Pola la montagna di Coltoront. Alcuni decenni più tardi le due Regole unirono i loro patrimoni, dando vita nel 1700 ad un unico istituto regoliero.

La Val di Zoldo tra XVIII e XIX secolo

L’epidemia di peste del 1631, preceduta da alcune annate di pessimi raccolti che interessarono gran parte dell’Italia settentrionale, segnò il definitivo declino della metallurgia zoldana.

La popolazione rimasta, pressoché dimezzata, riuscì per un certo periodo di tempo a vivere dignitosamente con i prodotti dell’allevamento e della pastorizia, integrati da un’agricoltura di sussistenza e dal taglio e vendita del legname.

Attorno alla metà del seicento venne introdotta in Veneto la coltivazione del mais, che modificherà profondamente la dieta della popolazione: il granturco non è una coltura adatta alle quote elevate, ma nel territorio di Forno si riesce a coltivare, almeno fin verso i mille metri di quota. La dieta veneta a base di “polenta e formaggio” si diffuse così anche a Zoldo, soprattutto nella parte bassa della valle, mentre a Zoldo Alto resistono i piatti a base dei cereali tradizionali (orzo e fave).

La sostituzione di questi ultimi con il mais permise di sostenere una più rapida crescita demografica: nel 1640 Ermolao Tiepolo, rettore di Belluno, scrive che nel territorio bellunese si produce “formento bastevole alla città per doi terzi dell’anno, ma di sorgoturco tanta copia che n’avanza da sovvenir anco sudditi circonvicini”#.

In generale, dove la farina di mais si affermò come elemento quasi esclusivo dell’alimentazione, si assistette ad un impoverimento della dieta, con le carenze vitaminiche che determinarono la diffusione della pellagra (fenomeno non sconosciuto neppure nelle valli alpine, dove pure il mais doveva essere perlopiù importato dalla pianura).

In ogni caso, passata l’epidemia di peste, la popolazione ricominciò a crescere con ritmi sostenuti: all’inizio del 1700 le perdite della prima metà del seicento sono ormai colmate, e nei decenni successivi la pressione demografica incominciò a diventare eccessiva per la valle.

Ebbe inizio per la Val di Zoldo, così come per molte altre vallate in tutto l’arco alpino, un lungo periodo di crisi: Zoldo, che un tempo attirava lavoratori e coloni dalla pianura veneta e persino dalle terre di lingua tedesca, diventerà terra di emigrazione.

Dal XVIII secolo in poi si verificano costanti flussi migratori, diretti inizialmente verso la pianura veneta e la città di Venezia in particolare, dove gli zoldani si specializzano in varie attività artigianali: numerosa fu la manodopera scesa all’arsenale di Venezia a esercitare le “arti meccaniche” o quella di “maestro d’ascia”, per le quali gli zoldani erano molto ricercati.

Zoldo seguiva nel frattempo i destini della Serenissima: nel 1806 le truppe napoleoniche, prima della cessione del territorio veneto all’Austria, sanciscono la soppressione delle proprietà collettive ed il trasferimento del patrimonio regoliero ai Comuni.

Questo evento non provocò grandi sconvolgimenti nella vita quotidiana della popolazione, che cercò di rispettare comunque le antiche consuetudini nell’uso dei beni comuni. Come si vedrà nei paragrafi successivi, gli ex regolieri riuscirono a conservare di fatto i propri diritti esclusivi sulle proprietà collettive, evitando che essi venissero estesi all’intera popolazione residente, intento esplicito della riforma napoleonica.

In ogni caso l’antico sistema basato sulla gestione collettiva delle terre era ormai largamente insufficiente a garantire la sopravvivenza di una popolazione troppo numerosa.

Nel corso del XIX secolo l’emigrazione divenne un fenomeno sempre più consistente: alle tradizionali mete nella vicina pianura si aggiungono nuove direzioni e nuovi mestieri. Molti raggiunsero miniere e cantieri dell’Europa centro-orientale e, analogamente a quanto avvenne in altre parti d’Italia, si verificarono ondate migratorie verso le Americhe.

Più significativa per il futuro economico di Zoldo fu l’emigrazione verso i paesi di lingua tedesca, dove gli zoldani si dedicarono inizialmente alla vendita di pere cotte, biscotti e dolciumi e successivamente di sorbetti e gelati#: dopo le devastanti alluvioni di fine ‘800 il flusso migratorio (prevalentemente stagionale) verso le città dell’Impero asburgico aumentò considerevolmente. Gli zoldani si specializzarono nella preparazione del gelato, che veniva preparato in appositi mastelli, congelato con ghiaccio e sale, infine travasato in tinozze di legno che venivano isolate con dei sacchi per mantenerlo solido fino a sera. Il contributo della gente di Zoldo e del Cadore fu determinante per la diffusione di questo prodotto nell’Europa centrale e settentrionale e presto il commercio ambulante venne sostituito da quello in forma fissa: nel 1894 il comune di Vienna ritirò agli zoldani la licenza di venditori ambulanti per proteggere i pasticceri locali.

Per poter continuare la loro attività, i gelatieri iniziarono ad affittare dei piccoli negozi arredandoli con semplici panche ed una lanterna.

Negli anni 1920 nella sola capitale austriaca si contavano già alcune decine di gelaterie zoldane, che erano diventate circa cinquanta negli anni 1960.

L’emigrazione rimase un fenomeno rigorosamente stagionale: i gelatieri aprivano le loro botteghe nel periodo compreso tra marzo e ottobre, continuando a trascorrere l’inverno nei loro paesi d’origine.

La Val di Zoldo in epoca contemporanea

Nota: questa sezione è stata fortemente ridimensionata e rimaneggiata rispetto al testo originale. Chi desidera approfondire l’argomento può richiedere la versione integrale del testo.

L’epoca dei gelatieri: conseguenze dell’emigrazione stagionale sulle strutture sociali ed economiche della valle.

Un breve approfondimento in merito all’emigrazione stagionale, fenomeno che in un determinato periodo coinvolse direttamente o indirettamente quasi la totalità della popolazione, può aiutare a comprendere la rapidità con la quale venne abbandona l’agricoltura e, in generale, perchè le risorse economiche della valle vennero trascurate, con ulteriori conseguenze negative su quanto sopravviveva, attraverso consuetudini o in altre forme, delle antiche Regole.

Negli anni successivi al primo dopoguerra i gelatieri in Zoldo erano già numerosi in rapporto alla popolazione, ma fu a partire dagli anni cinquanta che questa attività arrivò a coinvolgere, direttamente o indirettamente, quasi tutte le famiglie di Zoldo.

Le difficoltà economiche del dopoguerra, e il desiderio di poter migliorare le proprie condizioni di vita, spinsero centinaia di famiglie ad abbandonare definitivamente le attività tradizionali (agricoltura e allevamento) per aprire una gelateria in Austria o Germania. L’obiettivo degli zoldani era di diventare rapidamente titolari di un proprio locale, e in quel periodo trovarono le condizioni più favorevoli per realizzarlo, in particolare in Germania.

Chi partiva disponeva soltanto di capitali modesti, derivanti perlopiù dalla vendita del bestiame o di qualche terreno, ma poteva fare affidamento sulla solidarietà dei propri compaesani e, soprattutto, sull’atteggiamento favorevole delle banche e delle autorità tedesche, determinate a sostenere la ricostruzione del paese: gli emigranti una volta giunti in Germania generalmente svolgevano un breve periodo di apprendistato presso altri zoldani, dove in pochi mesi (o settimane) cercavano di imparare le basi del mestiere e della lingua tedesca. I gelatieri di Zoldo si erano costruiti in Germania una buona reputazione: in un contesto di forte crescita economica e con un prodotto di successo, molti fecero fortuna ed il tenore di vita in Zoldo migliorò notevolmente.

In alcuni casi, a partire dagli anni ottanta, i gelatieri fecero un ulteriore salto di qualità e diedero alla loro attività una dimensione imprenditoriale, arrivando anche in mercati molto lontani:

“C’è chi grazie al gelato artigianale ha fatto fortuna all’estero. E’ il caso di Donata Panciera, figlia d’ arte originaria della Val di Zoldo, la valle dei gelatieri. […] Oggi in tutto il Giappone funzionano già 16 gelaterie artigianali con il nome “Panciera” […] Donata, grazie alle sponsorizzazioni televisive, e’ diventata in Giappone un personaggio pubblico […] Una dolce conoscenza che ha già travalicato i confini nipponici, arrivando in un altro Paese asiatico: l’ultima gelateria “Panciera” è stata infatti aperta nel luglio scorso a Singapore.”#

Il fenomeno dell’emigrazione fu così massiccio da determinare profondi cambiamenti nella società e nell’economia della vallata; innanzitutto va detto che quasi tutti gli emigranti fecero una scelta ben precisa: mantenere ben saldi i legami con la terra e la cultura di origine, anziché tentare di integrarsi definitivamente nella società tedesca.

Nonostante questo attaccamento alle origini era ovviamente inevitabile una profonda trasformazione dei rapporti sociali ed economici in Val di Zoldo: i gelatieri ci vivevano solo d’inverno, stagione coincidente con il periodo di riposo, mentre in primavera ed in estate Zoldo divenne il paese dei silenzi, animato solo da qualche turista e dai pochi che continuavano a lavorare in valle.

L’agricoltura di montagna e l’allevamento scomparvero completamente nel giro di pochi anni, mentre alcune frazioni rurali, relativamente isolate rispetto al resto del territorio, vennero definitivamente abbandonate: un esempio significativo è quello di Colcerver, paese situato in una posizione particolarmente favorevole per l’agricoltura e oggi completamente disabitato. In molti casi l’architettura tradizionale venne sostituita da ville e villette costruite in uno stile alpino piuttosto standardizzato, con l’importante eccezione dei tabià, i tipici fienili presenti in tutto il territorio dolomitico, che sono stati nella maggior parte dei casi conservati, restaurati o trasformati in abitazioni rispettandone le caratteristiche originarie.

Dalle testimonianze orali o dalla semplice osservazione delle vecchie cartoline risulta evidente come la superficie destinata al pascolo e alla semina si sia ridotta a favore del bosco, con conseguente aumento anche della fauna locale: cervi e caprioli oggi sono molto più facili da avvistare rispetto ad alcuni decenni fa.

Naturalmente non scomparve l’attività di taglio del legname per il soddisfacimento dei fabbisogni individuali, praticata ancora assegnando i lotti alle famiglie secondo le antiche consuetudini regoliere, pur attraverso la gestione del Comune.

Da questi dati emerge dunque che, nella seconda metà del novecento, anche Zoldo, come gran parte della montagna bellunese, ha registrato un forte calo demografico, accompagnato dall’abbandono delle attività rurali e dal deterioramento delle reti sociali, determinato dallo spopolamento e dall’emigrazione, nonostante il carattere stagionale di quest’ultima.

Il gelato artigianale si affermò in questo periodo come uno dei prodotti gastronomici italiani più apprezzati nell’Europa centrale e settentrionale: il benessere che ne conseguì favorì solo in parte lo sviluppo economico nella valle, anche se ebbe un ruolo importante nello sviluppo economico bellunese nel secondo dopoguerra, sia diretto, con la nascita di industrie specializzate (arredamenti e prodotti per gelaterie), sia indiretto, attraverso il sistema bancario, che vedeva affluire rimesse significative in valuta pregiata, e con gli investimenti immobiliari.

Il turismo

Nell’ambito veneto la Val di Zoldo figura tra le località montane meglio attrezzate (escludendo dal confronto il caso particolare di Cortina) e risulta ben inserita, in particolare, nei grandi circuiti dello sci alpino.

Infatti, il comprensorio sciistico del Civetta, di cui Zoldo fa parte con Alleghe e Selva di Cadore, offre circa 80 km di piste e dispone di impianti di risalita moderni, risultando tra i più grandi del Veneto; il Civetta inoltre è uno dei dodici comprensori che formano Dolomiti Superski, il più grande circuito dello sci alpino nel mondo.

Va detto che, oltre a dover sostenere costi di esercizio molto elevati, per reggere la concorrenza altoatesina la gestione di impianti di risalita richiede investimenti molto importanti per rinnovare costantemente l’offerta.

L’offerta estiva, piuttosto che sulla vita mondana e sulle attrazioni turistiche create dall’uomo, punta sullo straordinario ambiente naturale, con territori incontaminati e poco frequentati, cime dolomitiche spettacolari e storici rifugi d’alta quota, nonché sulla pace e sul silenzio, attrattive sempre più pregiate.

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